“L’obiettivo del portale – dichiara Matteo Pallocca – è quello di scremare rapidamente tra le centinaia di migliaia di sequenze virali generate e le mutazioni rilevate sulla proteina virale Spike, quelle di maggiore interesse per l’interazione con i recettori e gli anticorpi umani, e che possono impattare sul funzionamento dei vaccini in via di approvazione”
Il portale COVID-Miner è l’oggetto di un lavoro in corso di pubblicazione sulla rivista internazionale Journal of Translational Medicine. Qui è descritta già la cosiddetta “variante inglese” diventata molto famosa negli ultimi giorni. Questa contiene due mutazioni principali sulla proteina Spike: in particolare una piccola delezione di pochi aminoacidi (delta 69-70) e una mutazione (N501Y) nel sito di contatto del virus con il recettore umano. Di fatto non sarebbe da definire propriamente mutazione inglese perché, come viene descritto nel lavoro, è stata riscontrata per la prima volta negli Stati Uniti in Aprile e poi in Australia a Giugno, per poi diffondersi maggiormente come variante separata nel Regno Unito e in Sud Africa.
Nei mesi scorsi abbiamo visto molte varianti diffondersi e diventare dominanti. Un esempio è la variante D614G, presente in più del 90% dei virus in circolazione. Attualmente ci sono evidenze circa la crescita della variante inglese nel Regno Unito, tuttavia è ancora difficile determinare se tale crescita sia dovuta a una sua maggiore infettività, oppure sia piuttosto da attribuire alla grande mobilità degli abitanti nell’affollata area metropolitana di Londra. Anche sulla maggiore trasmissibilità nei confronti delle fasce più giovani della popolazione gli epidemiologi dell’OMS sono ancora cauti nelle loro dichiarazioni.
L’apprensione riguardo alla possibilità che i vaccini appena approvati non abbiano effetto su questa nuova variante è comprensibile. Tuttavia, esiste un ragionevole ottimismo al riguardo, giustificato dal meccanismo d’azione dei vaccini stessi. Se è vero infatti che il vaccino induce una risposta anticorpale verso la proteina Spike classica (cioè non mutata) è altrettanto vero che il “repertorio di anticorpi” prodotto dal corpo umano in seguito all’inoculazione del vaccino contiene migliaia di piccole variazioni che, per ragioni evolutive, sono in grado di riconoscere anche le variazioni della proteina Spike originaria.
“In conclusione – dichiara Gennaro Ciliberto, direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena e coautore del lavoro scientifico sul COVID-Miner- le varianti virali vanno monitorate con infrastrutture condivise e grande potenza di fuoco in termini genomici. Da questo punto di vista il Regno Unito è un modello estremamente virtuoso, specialmente se si considera la flessibilità dei vaccini genetici, che in poche settimane possono essere modificati per colpire più precisamente le mutazioni più frequenti”.
L’espressione “variante inglese” non è legata dunque al luogo d’origine della mutazione, tuttavia è entrata nell’uso perché dal Regno Unito è giunto finora il maggior numero di rilevazioni. Questa disparità è plausibilmente originata dal più alto numero di sequenziamenti e tracciamenti avvenuti: basti pensare che attualmente nel portale internazionale di riferimento per le sequenze virali (GISAID) sono depositate circa 80.000 sequenze provenienti dalla Gran Bretagna e meno di 1.000 dall’Italia, su un totale di 200.000 sequenze circa. Questa differenza nella raccolta dei dati potrebbe aver originato nei media e nell’opinione pubblica un resolution bias, ossia la tendenza a dare maggior risalto a un evento semplicemente perché maggiormente rilevato.